
Vi sono certi piccoli approdi fuori mano, lungo il Tamigi ed il Medway, presso i quali ha luogo buona parte dei miei ozii estivi. L’acqua che scorre asseconda i sogni ad occhi aperti, e una forte corrente fluviale è per me il miglior modo in cui l’acqua possa scorrere.
Mi piace osservare le grandi navi in alto mare, oppure quelle che fanno ritorno stracariche, i piccoli, attivissimi rimorchiatori a vapore che per accompagnarle fanno la spola con la linea dell’orizzonte sbuffando baldanzosi, la flotta di barchette che sembrano aver preso le loro vele marroni e rossastre dagli alberi stagionati del paesaggio circostante, le vecchie, pesanti carboniere leggere di zavorra, che s’impappinano al cospetto della marea, i leggeri natanti ad elica e le golette che mantengono imperiosamente la rotta laddove gli altri debbono pazientemente virare e traccheggiare, i panfili con i piccoli scafi e le grandi distese di tela bianca, le piccole barche a vela che sobbalzano mentre vanno avanti e indietro per diporto o per lavoro, e — com’è nella natura della piccola gente — fanno un enorme trambusto per i loro piccoli affari. Osservo tutte queste imbarcazioni, ma non mi sento in alcun modo obbligato a dirigere su di esse i miei pensieri, e in effetti neppure il mio sguardo, a meno che non mi trovi proprio nell’umore giusto. Né mi ritengo obbligato a udire lo sciabordio e il tonfo della marea, il gorgoglio ai miei piedi, il rumore dell’argano in lontananza, o le pale dell’elica del piroscafo che ronzano ancora più lontano. Tutto ciò, insieme al pontile cigolante sul quale son seduto, ed i segnali dell’alta e della bassa marea nella melma, e la stradina spezzata, e il ciglione spezzato, e i pali delle palafitte spezzati e chini in avanti come se per vanità volessero specchiarsi nell’acqua, si fondono senza sforzo con i capricci della fantasia. Parimenti adattabili a qualsiasi scopo, o a nessuno scopo, sono le pecore e le vacche che pascolano nel terreno paludoso, i gabbiani che roteano e scendono in picchiata intorno a me, i corvi (che non sono a un tiro di schioppo) diretti a casa, provenienti dai fertili campi della mietitura, l’airone che è stato fuori a pesca e pare melanconico, lassù nel cielo, come se non avesse digerito bene. Tutto ciò che è alla portata dei sensi s’offrirà, con l’aiuto dell’acqua che scorre, a tutto ciò che si trova al di fuori di quella portata, onde formare un insieme sonnolento, non dissimile da una melodia della quale manca però un’esatta definizione.



Con il ragazzo sapiente — che non conosco sotto altro nome che quello di Spirito del Fortino — io mi accompagnai di recente in un giorno in cui soffiava forte la brezza e il fiume gorgogliava accanto a noi pieno di vita. Vidi trasportare il grano legato in fasci attraverso i campi dorati, mentre scendevo diretto alla sponda del fiume; e l’allegro fattore, osservando i suoi braccianti seduto in sella al suo cavallo, mi raccontò di come la settimana prima avesse falciato i suoi duecento e sessanta acri di grano a paglia lunga, e di come non avesse mai, in vita sua, fatto un lavoro migliore nel giro di una settimana. La pace e l’abbondanza vestivano la campagna delle loro magnifiche forme e dei loro magnifici colori, e il raccolto sembrava esser salpato per andare a ingentilire l’oceano incolto, a bordo delle chiatte cariche di giallo che si vedevano in lontananza.
Fu in questa occasione che lo Spirito del Fortino, facendo alcune osservazioni in merito ad una batteria galleggiante che negli ultimi tempi si trovava in quel tratto del fiume, ebbe ad arricchire il mio spirito con le sue opinioni in merito all’architettura navale, e m’informò del fatto che gli sarebbe piaciuto fare l’ingegnere. Io lo giudicai all’altezza del modus operandi dei Signori Peto e Brassey nel ramo degli appalti: astuzia in fatto di cemento; moderazione in materia di ferro; munificenza per quanto concerne l’artiglieria. Nel discutere di battipali e di canali artificiali, mi surclassò totalmente, e non potrò mai ringraziarlo come meriterebbe per aver tollerato la mia insipienza. Mentre discorreva in tal guisa, a più riprese indirizzò lo sguardo verso un punto piuttosto distante del paesaggio, e parlò con un enigmatico timore reverenziale del “Cantiere”.
Rimeditando le sue lezioni dopo che ci separammo, conclusi che il Cantiere doveva essere uno dei nostri grandi Cantieri Navali pubblici, il quale giaceva nascosto in mezzo alle colture, giù nell’avvallamento alle spalle dei mulini, come a voler restare pudicamente celato alla vista in tempo di pace, evitando di recar turbamento a chicchessia. Ammirato da tanta modestia da parte del Cantiere, decisi che bisognava conoscerlo meglio.

La buona opinione che m’ero fatto riguardo all’esistenza ritirata condotta dal Cantiere non dovette esser modificata in seguito a una più ravvicinata frequentazione. Il Cantiere risuonava del frastuono dei martelli che battevano sul metallo; e i grandi capanni o scivoli, presso i quali si costruiscono le possenti navi da guerra, avevano un’aria molto seria quando li si contemplava dall’altra sponda del fiume. Ciononostante il Cantiere evitava di mettersi in mostra, tenendosi bensì al riparo di pendii coltivati a grano, luppolaie ed orti; le sue grandi ciminiere fumavano con un’aria tranquilla, quasi pigra, come giganti che fumano tabacco; e le grandi Forbici ormeggiate lì accanto hanno un’aria oltremodo mite e inoffensiva, come la Giraffa meccanica. Il deposito dei cannoni, presso l’adiacente imbarcadero, aveva un innocente aspetto di giocattolo, e l’unica sentinella in giubba rossa che vegliava su di essi pareva u soldatino in miniatura, con un movimento a orologeria. Quando la luce del sole risplendette su di lui, avrebbe potuto passare per il famoso omino con lo schioppettino, le cui palle erano fatte di piombo, piombo, piombo.
Attraversando il fiume e raggiungendo lo Scalo, dove un mucchietto di trucioli ed erbacce alla deriva aveva tentato d’attraccare prima di me senza riuscirvi, constatai come i pali della strada altro non fossero che cannoni, e le decorazioni architettoniche fossero granate. E così eccomi davanti al Cantiere, il cui ingresso è serrato da imponenti cancellate, come un’enorme cassaforte brevettata. Una volta che questi cancelli m’ebbero divorato, venni digerito all’interno del Cantiere; che a tutta prima aveva un’aria compiutamente vacanziera, come se avesse cessato il lavoro in attesa della prossima guerra. Ma in effetti si vedeva capitombolare fuori dai depositi una gran quantità di cordame, difficilmente compatibile con la placidità simulata dal Cantiere.


Inoltrarsi in mezzo alla fanghiglia e all’umidità in fondo al molo asciutto, nelle profondità sotterranee della foresta di puntelli e sostegni che la tengono in piedi, e vederne la massa enorme gonfiarsi lassù in alto, ed assottigliarsi mano a mano che scende verso di me, significa, dopo grandi fatiche e tanto arrampicarsi, giungere alla conclusione che non si tratti per nulla d’una nave, e farsi prendere dalla fantasia che si tratti, invece, d’una enorme struttura inamovibile posta all’interno d’un antico anfiteatro (quello di Verona, diciamo), e che lo riempie quasi per intero! E tuttavia che cosa sarebbe mai tutto ciò, senza le officine immissarie e la loro capacità di perforare lastre di ferro — spesse quattro pollici e mezzo — per collocarvi i bulloni, piegarle mediante pressione idraulica sì da assecondare le più affusolate curve della nave, e tagliarle mediante lame foggiate come il becco d’un uccello forte e crudele, sì da seguire il progetto sin nei dettagli! Queste macchine d’una forza tremenda, azionate senza soverchie difficoltà da un volto attento e da una mano ferma, mi sembrano condividere qualcosa della schiva personalità del Cantiere. “Mostro obbediente, per favore mordi quest’ammasso di ferro da un lato all’altro, tutt’intorno, a intervalli regolari nello spazio, lì dove stanno quei segni tracciati con il gesso”. Il mostro dà un’occhiata al lavoro cui viene chiamato, poi solleva la testa pesante e risponde: “Non che mi vada particolarmente; ma se si deve fare... “. Il massiccio metallo sguscia fuori dai denti del mostro che l’hanno sgranocchiato a dovere, e quel che si doveva fare è stato fatto. “Mostro, da bravo, osserva quest’altro ammasso d’acciaio. Bisogna che lo si ritagli secondo questa linea arbitrariamente tracciata, la quale s’assottiglia a poco a poco, come ti prego d’osservare”. Il mostro (che stava sognando a occhi aperti) rivolge lo schietto cipiglio verso l’ammasso di ferro e, in una maniera che ricorda il Dottor Johnson, osserva da presso la linea irregolare: molto da presso, dacché è un tantino miope. “Non che mi vada particolarmente; ma se si deve fare..!”. Il mostro dà un’altra miope guardata alla linea, prende la mira, e il povero pezzo di metallo si contorce per il dolore e precipita in mezzo alle ceneri, in guisa d’una serpe tutta attorcigliata e incandescente. Il procedimento mediante il quale si forgiano i bulloni è nulla più che un simpatico giuoco da tavolo, dove s’inserisce una caramella incandescente in una specie di girella della papessa Giovanna, e subito ne vien fuori un bullone; ma il tono di voce delle grandi macchine è quello del grande Cantiere e della grande nazione: “Non che ci vada particolarmente; ma se si deve fare...!”.

Al momento non ho tempo per pensarvi, poiché sto andando a visitare le officine nelle quali vengono approntati tutti i remi usati dalla Marina Britannica. Un edificio piuttosto grande, mi vien fatto d’osservare, e un lavoro piuttosto lungo! Per quel che riguarda l’edificio, mi attende un’immediata delusione, dacché tutto il lavoro si svolge all’interno d’una sola galleria. E riguardo al lungo lavoro.., in che consisterebbe? Due mangani piuttosto grandi con uno sciame di farfalle a svolazzare intorno? Cosa potrà esservi nei mangani, tale da attirare le farfalle?
Avvicinandomi, m’accorgo che non di mangani si tratta, bensì di complessi macchinari, dotati di coltelli e seghe e pialle, che tagliano liscio e diritto in un punto, e obliquamente in un altro, e ora incidono in profondità, e ora non incidono affatto, a seconda delle esigenze dei vari pezzi di legno che vengon sospinti sotto di essi: ciascuno dei quali è destinato a diventare un remo, e viene approssimativamente tagliato in vista di tale scopo prima di congedarsi definitivamente dalle lontane foreste di provenienza, e salpare alla volta dell’Inghilterra. Parimenti m’accorgo che le farfalle non sono vere farfalle, ma trucioli di legno, i quali, fatti schizzar via dal legno dalla violenza del macchinario, e tenuti in rapido e diseguale movimento dall’impulso rotatorio, volteggiano e s’inseguono, e s’alzano e s’abbassano, atteggiandosi a farfalle come meglio non si potrebbe. D’improvviso il rumore e il movimento cessano, e le farfalle stramazzano al suolo.
Da quando sono entrato è stato lavorato un remo, cui adesso manca soltanto l’impugnatura acconciamente tornita. Con la stessa velocità del mio pensiero, ecco che quel remo viene portato al tornio. Un turbine di polvere e che Diavolo! Manico a posto. Remo pronto.
La squisita bellezza ed efficienza di tale macchinario non avrebbe bisogno di illustrazione alcuna: e tuttavia proprio oggi se ne ebbe una particolarmente significativa. Si dà il caso che vengano richiesti due remi d’insolite dimensioni, che debbono esser fatti a mano. Fianco a fianco con la macchina ingegnosa e spigliata al tempo stesso, e fianco a fianco con la catasta di remi che s’innalza a vista d’occhio sul pavimento, si trova un uomo, il quale foggia questi remi speciali servendosi di un’ascia. Privo della compagnia delle farfalle, truciolando con costanza ma senza fretta, come un pagano che intendesse finirli in tempo per il proprio decesso all’età di settant’anni, onde farne dono a Caronte al momento di salire sulla barca, l’uomo (intorno ai trent’anni) espleta il suo compito.
La macchina sforna un remo a norma nel lasso di tempo in cui questo tizio s’asciuga la fronte. L’uomo potrebbe finire sepolto sotto una montagnola fatta di altrettante striscioline strappate al legno utilizzato quanti sono i minuti che corrono sull’orologio, prima d’aver compiuto a colpi d’ascia il lavoro di una mattinata.

Ritornando, dopo questo meraviglioso spettacolo, alle Navi — dacché il mio cuore, per quel che riguarda il Cantiere, sta dove stanno le navi — debbo notare certe paratie di legno non terminate e lasciate a stagionare sui sostegni in attesa che fosse risolta la controversia del legno e del ferro, e con tutta l’aria di chi aspetta con burbera fiducia in se stesso. I nomi delle navi sono indicati accanto alle paratie, insieme al numero di cannoni che possono contenere: politica questa che faciliterebbe e renderebbe assai più soddisfacenti i rapporti sociali, qualora fosse fatta propria dal genere umano.
Grazie ad una tavola di legno più graziosamente pendula che non solida, m’avventuro a bordo di una nave da carico (elica di ferro) appena arrivata dal cantiere dell’appaltatore per essere ispezionata ed approvata. Far la conoscenza di questa nave è un’esperienza assai gratificante, per via della semplicità e dell’umanità della sistemazione che assicura alle truppe, della sua attenzione alla luminosità, alla ventilazione e alla pulizia, della cura che si prende di donne e bambini. Mi vien fatto di pensare, mentre la esploro, che richiederei una gran bella somma di denaro per accettare di salirvi a bordo al suono della campana di mezzanotte, lì nel Cantiere, e restarvi da solo fino al mattino: perché di sicuro dev’essere infestata da una ciurma di spettri di vecchi e ostinati ufficiali, che scuotono tristemente le spalline rimpiangendo i tempi andati. E tuttavia, proprio i mezzi stupefacenti di cui dispone oggi il Cantiere dovrebbero insegnarci il rispetto dei nostri progenitori, che affrontarono e domarono il mare senza disporre di tali mezzi. Questi pensieri mi dispongono così favorevolmente nei confronti di una vecchia carcassa, dal rame verdissimo e tutta scolorita e macchiata, che passandoci davanti mi scappello. Del cui saluto s’appropria un imberbe se non implume Meccanico: e che faccia pure, dico di tutto cuore.
Essendo stato fatto a pezzi (nella mia immaginazione) da seghe a vapore circolari, seghe perpendicolari, seghe orizzontali, e seghe che tagliano con movimento eccentrico, vengo alla parte bighellona della mia spedizione e, pertanto, al nocciolo delle mie ricerche senza scopo.
Dappertutto, nel bighellonare su e giù per il Cantiere, m’imbatto nei segni della sua natura tranquilla e riservata. V’è un’austerità, in quegli uffici di mattoni rossi, un compassato fingere di non aver nulla d’importante da fare, un evitare di mettersi in mostra, che non ho mai veduto al di fuori dell’Inghilterra. La pietra bianca del pavimento non presenta altra traccia dell’Achilles e dei suoi milleduecento uomini che battono con il martello (ma nessuno dei quali batte la grancassa) che qualche eco, di tanto in tanto. Non fosse per un sussurro nell’aria, che allude ai trucioli ed alla segatura, la lavorazione dei remi e le seghe dagli svariati movimenti potrebbero trovarsi a miglia di distanza. Quaggiù ecco la grande cisterna dove il legname viene immerso nell’acqua alle più diverse temperature, nel corso del processo di stagionatura. Al di sopra di essa, lungo un binario sorretto da piloni, viaggia il Vagone dell’Incantatore Cinese, che si ferma per ripescare i tronchi di legno quando sono rimasti in immersione a sufficienza, poi riparte per trasportarli fino ai depositi. Quando ero bambino (all’epoca avevo dimestichezza con la cantieristica) ero solito pensare che mi sarebbe piaciuto giocare all’Incantatore Cinese, con la summenzionata attrezzatura messa a mia disposizione a tale scopo da una benevola nazione.Penso tuttora che mi piacerebbe provare a scrivere un libro, dentro quel vagone.

L’isolamento è assoluto, e fare avanti e indietro in mezzo a cataste di legname sarebbe un’ottima maniera di viaggiare per paesi stranieri: tra le foreste del Nord America, le fradice paludi dell’Honduras, i boschi di cipressi, le gelate della Norvegia, e le calure tropicali, le stagioni delle piogge, e i temporali. La costosa riserva di legname viene accatastata e messa da parte in luoghi appartati, sempre evitando i fronzoli e l’ostentazione. Questo legname si fa il più possibile piccino, e non va dicendo “Venite qui a guardarmi! “. Eppure viene selezionato tra gli alberi di tutto il mondo; selezionato in ragione della lunghezza, della larghezza, dell’esser diritto o dell’essere storto, scelto avendo in mente tutte le esigenze delle più varie navi e imbarcazioni. E ve ne sono di bizzarramente ritorti, preziosi agli occhi dei carpentieri navali. Girovagando tra questi boschetti, giungo presso una radura dove alcuni operai stanno esaminando del legname di recente consegna. E' una scena alquanto pastorale, con uno sfondo di fiumi e mulini a vento! E non fa pensare alla Guerra più di quanto gli Stati Americani facciano pensare ad un’Unione. Bighellonando in mezzo alla manifattura delle corde, finisco in uno stato di beata indolenza, dove la corda della mia vita sembra sciogliere i propri nodi a tal punto che riesco a vedere con la mente giorni davvero molto lontani, allorché i miei brutti sogni — erano terrificanti, anche se il mio più maturo intendimento non ha mai potuto stabilire con precisione perché — avevano sempre a che vedere con le corde. Dopo di ciò, proseguo in mezzo alle silenziose gallerie di depositi — depositi di vele, di aste, di sartiame, di scialuppe — deciso a voler credere che esista da qualche parte un responsabile, il quale, chino sotto il peso d’un enorme mazzo di chiavi appeso al cinturone, sopraggiunge quando v’è bisogno della tale cosa e, distinguendo una chiave dall’altra meglio di Barbablù, apre la tale porta. Imperturbabili per quanto possano sembrare le lunghe gallerie, al segnale trasmesso dalla pila elettrica porte e saracinesche verranno spalancate, ed una flotta di navi armate, vuoi a vela vuoi a vapore, si farà avanti affidando perciò stesso ai vecchio Medway — dove il gaio Stuart fece venire gli olandesi, mentre i suoi uomini, meno gai, pativano la fame per le strade — qualcosa di notevole da trasportare fino al mare. E così mi avvio pigramente verso il Medway, dove adesso c’è l’alta marea, e mi pare che il fiume abbia premura di farsi strada fino al molo asciutto dove milleduecento uomini fanno bam bam sull’Achilles, con l’intenzione di trascinarla con loro prim’ancora che quelli abbiano finito.
